Tecnica ed estetica nell’architettura contemporanea con particolare riguardo all’Italia
I rapporti tra arte e tecnica sono stati intimi sin dagli albori dell'attività creativa umana. La stessa parola «tèhne» che bastava, presso i greci antichi, a indicare arte e tecnica insieme, lo dimostra. Ma il fatto che nell’ottocento il greco volgare abbia adottato — a imitazione di molte altre lingue europee — la denominazione di « kalà tèhne » quasi a distinguere arte bella da arte «non bella» utilitaria, applicata, dimostra un altro dato, importante : il verificarsi d’una dicotomia tra « arti belle » e «arti non belle », tra arti pure e arti applicate, tra arte e « non-arte ».
L'architettura, la più «tecnica» di tutte le arti, quella che per le sue stesse implicazioni non può prescindere dall'elemento tecnico, doveva esserne particolarmente investita. Sin dove, si disse, l'architettura è arte, anzi è arte bella? Sin dove è solo arte applicata, edilizia, mezzo meccanico ed utilitario che serve a dare un alloggio all’uomo o una costruzione alle molte necessità della vita? L’evidente confusione, che fu frequente sullo scorcio del secolo scorso tra elemento decorativo ed elemento costruttivo, tra rinnovamento stilistico e rinnovamento tecnico, è in fondo, ancor oggi, lungi dall'esser risolta, e denuncia il persistere d'una situazione d'equivoco in questo campo. Chi confronti, ad es, alcuni disegni ed alcuni oggetti di William Morris con altri di Christopher Dresser (e cito a bella posta due coetanei) si avvede tosto d’una disparità di gusto, oltre che di realizzazione pratica, dipendente dall'aver inteso o meno da parte dei due artisti ottocenteschi l’importanza d'una nuova visione del rapporto tra arte e tecnica.
E lo stesso si può dire — venendo all’Italia — quando si confrontino certi mobili intarsiati e carichi di fregi e di ricami di Quarti, o certe strutture di D'Aronco o di Bossi: da un lato il persistere d’un decorativismo mal inteso, dall'altro il primo affermarsi d’un tecnicismo già pre-funzionalista.
Un altro equivoco che doveva perdurare sino ai nostri giorni è quello dell'identificazione di «buona architettura » nel binomio di utilità e bellezza e nella convinzione d'una presunta indispensabilità dell’elemento pratico — utilitario nel condizionamento del nuovo elemento estetico — formale. Anche qui l'errore consisteva nel non aver inteso che spesso ad un primo e necessario intervento determinante del dato tecnico (e addirittura economico, meccanico, utilitario) succedeva un secondo momento in cui l’ulteriore evoluzione formale poteva svilupparsi anche a prescindere — e persino in contrasto — con tale elemento tecnico-utilitario.
Fu in questa impasse che ebbero, infatti, ad arenarsi molte delle posizioni dei primi funzionalisti, come s’erano arenate in analoghe restrizioni programmatiche le posizioni dei primi costruttivisti nel campo della pittura e della scultura astratte.
Eppure, come è noto, fu proprio da esigenze specificamente tecnico-funzionali che dovevano sorgere i primi elementi costruttivi capaci di trasformarsi in un secondo tempo in elementi estetici. Direi di più : fu proprio l'implicazione sociale-economica a precisare il nuovo volto che l'archittetura — anche quella più « pura » e gratuita — doveva venir assumendo.
Se l’Italia non partecipò che di rimbalzo ai nuovi fermenti costruttivi, di natura squisitamente ingegneresca, che videro affermarsi — in Francia ad es. — nomi come quelli di Labrouste, Eiffel, Cottacin e Dutert — anche l'Italia però rimase tosto coinvolta in un analogo indirizzo stilistico; quello appunto che si sviluppò nel nostro paese, parallelamente ai più importanti movimenti europei del Art Nouveau, Secession, Jugendstil, ecc., e che si può circoscrivere ad alcuni nomi che non dovrebbero esser dimenticati; e intendo: Bossi, Broggi, Sommaruga, Campanini, D'Aronco, Fabiani, ecc.
Questi architetti, attivi soprattutto a Milano, Torino, Trieste, Roma, furono i primi ad intendere, o ad avvertire sia pur confusamente e spesso paradossalmente, l’urgenza d’un rinnovamento del linguaggio architettonico, che tenesse conto, da un lato di nuove esplosioni stilistiche, dall’altro di nuove conquiste tecniche.
Se la lezione di Horta in Belgio, di Guimard e Gallé in Francia, di Van de Velde in Belgio e in Germania, di Loos e di Hoffmann in Austria aveva indubbiamente aperta la via a nuove prospettive struttive e plastiche, e se negli architetti del liberty italiano è evidente l'influsso da un lato dei franco-belgi, d'all'altro degli austriaci, tuttavia l'importanza autonoma del liberty nostrano non deve essere del tutto misconosciuta, anche perchè segna il primo passo in un rinnovamento che solo vent'anni più tardi doveva riprender fiato con la prima importante riscossa delle forze razionaliste attorno alla IV Triennale di Monza (del 1930) e con le precedenti iniziative del milanese «Gruppo Sette» (1926) e con la Prima esposizione italiana d'architettura razionale a Roma (1928) .(*) Quanto a Sant'Elia — ben noto come un pioniere dell'architettura moderna — egli mostra solo da un punto di vista teoretico e programmatico il verificarsi d’un connubio tra elemento tecnico ed estetico, giacché, come è noto, l’architetto comasco morì prima d'aver potuto portare a realizzazione i suo avveniristici progetti.
Sant’Elia si può, dunque, e si deve ricordare ma solo per alcune sue enunciazioni (tratte dal suo « Manifesto tecnico dell'architettura futurista» 1914) che ancor oggi suonano ammonitrici e premonitrici. Ricordo qui solo due sue frasi : « I materiali da costruzione moderni e le nostre nozioni scientifiche non s’adattano assolutamente alla disciplina degli stili storici »... « Una decorazione applicata e sovrapposta all’architettura è assurda.
Dall'uso e dalla disposizione originale del materiale grezzo o violentemente colorato dipende il valore decorativo dell’architettura futurista ».
Oggi il problema d'un rapporto tra arte e tecnica rientra in un genere di discussione molto più vasta e generale che investe direttamente problemi riguardanti tutte le altre arti e in particolar modo l’urbanistica e il Disegno Industriale.
Che l’arte tragga lo spunto, oltre che da un elemento espressivo e fantastico, anche da un medium — da un mezzo tecnico che si trasforma in mezzo espressivo e creativo — è cosa, credo, accettata dai più; e ciò che nelle altre arti è saltuario o meno evidente (si pensi al caso della musica elettronica e del cinema) nell’architettura è ancor più patente e palese. Un esempio dei più tipici, nel nostro paese, è fornito dalle costruzioni di P.L. Nervi — il « mago del cemento armato » — il quale, proseguendo e rinnovando le audacie d'un Maillart — ha saputo fare del cemento armato uno strumento di creazione artistica. Accanto al nome di Nervi dobbiamo ricordare quelli di altri costruttori in cemento armato come Morandi, Danusso, D’Olivo, ecc.
Ma, proprio il caso Nervi, ci permette di esaminare più da presso il nostro tema, attraverso le lenti, forse deformatrici, d'una mentalità impostata tecnicamente e come tale rifuggente agli allettamenti di estetismi e di teorizzazioni astratte. Ecco infatti come Nervi considera il problema della tecnica che l’ha guidato nella realizzazione delle sue costruzioni (e non credo sia qui il caso di analizzarle giacché sono universalmente note, ma tra le più tipiche e raggiunte vorrei almeno ricordare: le aviorimesse ad elementi prefabbricati, il Palazzo delle Esposizioni di Torino, la Manifattura Tabacchi di Bologna).
«Da prima la ricerca dello schema strutturale tecnicamente ed economicamente migliore, e in seguito lo studio dei vari elementi strutturali, allo scopo di affinarne le forme, pur nel rigoroso rispetto delle esigenze statiche e costruttive. » Questi i principi seguiti da Nervi nelle sue costruzioni, giacché egli continua: «ritengo di poter affermare che un buon organismo strutturale...è la condizione necessaria, se non del tutto sufficiente, di una buona architettura ».
Fortunatamente lo stesso Nervi ha ammesso: «se non del tutto suffìcente » ; e infatti io ritengo che l'intuitiva ricerca d'una data struttura segua lo stesso « processo formativo» che è implicito nel materiale usato; per cui sarà solo dal coincidere tra ricerca strutturale e volontà formativa che potrà scaturire l’opera d’arte. Comunque le parole del grande ingegnere possono servire da guida nel tener conto del notevole peso che, ai nostri giorni, la tecnica rettamente intesa può assumere nel condizionare l'opera architettonica. E alcuni edifìci recenti in Italia ne sono la riprova: ricorderò soltanto — giacché non mi è concessa un'esemplificazione più prolissa ~~ la stazione Termini di Roma (di Montuori e altri) — il complesso edilizio di Corso Italia di Moretti a Milano, sempre a Milano i due recenti grattacieli: La Torre Pirelli di Giò Ponti, Fornaroli, Rosselli, Valtolina, dell'Orto, con l’assistenza tecnica di Danusso e Nervi, e la Torre Velasca di Belgiojoso, Peressutti, Rogers, il Mercato dei fiori di Pescia (Ricci, Savioli, Gori) il Mercato del pesce di Minnucci a Ancona, la Slittovia di Lago Nero di Mollino a Sauze, alcune costruzioni in cemento armato precompresso di D'Olivo, e molte altre. Tutti questi edifìci non sarebbero concepibili senza il diretto intervento d'un quoziente tecnologico che viene, se non a mancare, certo ad essere in subordine, in molte costruzioni, pur tra le migliori, sorte in Italia nel dopoguerra (come, ad es. la Galleria d arte di Gardella a Milano, il Museo di Palazzo Bianco, dl Albini, a Genova, e numerose abitazioni (ville e case ad appartamenti) di Luccichenti e Monaco, Ridolfì, Viganò, Zanuso, De Carli, Figini e Pollini, Minoletti, Michelucci, per fare solo alcuni nomi. Ma — ed è qui che mi pare sia il caso d’insistere — anche in molte costruzioni di case d’abitazione, di villini, di chiese, l'elemento tecnico, inventato e suscitato dalle costruzioni ingegneresche, si è introdotto «di rimbalzo ». Questo ci dice, ancora una volta, come in un'arte come l’architettura l'ordine d'incidenza dei fattori economici, tecnici, estetici avvenga secondo un percorso di solito orientato in questo senso: premessa economica, che conduce ad una scelta tecnica; premessa tecnica, che
condiziona una resultante estetica; costituirsi d'uno «stile» (sia pur transitorio e facilmente consumabile) che persiste nella cornice d’una determinata forma, anche in assenza di elementi tecnico-economici che lo giustifichino; sintanto che nuovi impulsi tecnico-economici vengano assimilati da artisti più coscienti (o solo più fantasiosi e più rapidamente stanchi di moduli cristallizzati) i quali ne ricavino nuove, ed inedite, postulazioni estetiche.
Questi principi che ho tracciato sin troppo schematicamente hanno trovato una equivalenza nei più recenti sviluppi del Disegno Industriale italiano, dove disegnatori della qualità d'un Nizzoli, Zanusso, Steiner, De Carli, Pinin Farina, Ponti, ecc., hanno realizzato in molti oggetti industriali delle sagome in cui le caratteristiche formali
dipendevano in un primo tempo da esigenze techniche (il lato economico, in questo caso, è ovviamente sempre preminente) mentre in un secondo tempo, queste stesse
caratteristiche formali persistevano anche dopo avvenuto un superamento tecnico della primitiva sagoma; oppure, invece, mutava la forma anche senza l'esigenza
tecnica, per una sopraggiunta richiesta del mercato (economica dunque). In quest'ultimo caso — nel vasto settore della produzione industriale — potremo senz ’altro
ammettere una netta preminenza del fattore economico su quello tecnico-estetico. Se per altro consideriamo come anche lo sconfinato panorama delle «arti pure» (pittura, scultura) rimanga influenzato dalle forme create dall’industria, e se riflettiamo come queste forme utilitarie possano di rimbalzo creare una sorta di pedana artistica — svincolata in un
secondo tempo da ogni implicazione economica — , ci renderemo vieppiù conto come l’interferenza tra i tre fattori sia indissolubile — almeno nell'attuale fase sociale della nostra civilità — e come non si possa prescindere dal tenerne conto in qualsivoglia analisi della situazione artistica e culturale della nostra epoca.