Giancarlo De Carlo, Milano

La Piramide rovesciata

Nell’università, la prima fondamentale paratia è tra i docenti e gli studenti. I docenti sono quelli che sanno e gli studenti sono quelli che non sanno. Ma che cosa sanno e non sanno le due parti opposte? Naturalmente sanno e non sanno il sapere; ma non solo questo. Gli studenti, oltre il sapere, non sanno le ragioni per cui dovrebbero sapere; e non sanno i modi in cui queste ragioni sono governate; non conoscono e non debbono conoscere la struttura e le forme di questi modi ; non partecipano, non discutono, non decidono: sono passeggeri accidentali ed estranei in una istituzione che dovrebbe essere fatta per loro e che si giustifica solo per la loro presenza.

Un’altra serie di paratie divide ermeticamente i docenti. Ci sono gli assistenti volontari, gli assistenti ordinari, gli incaricati, i professori straordinari, i professori ordinari, i direttori di istituto, i presidi, i rettori. Qui le paratie sono orizzontali e la loro stratificazione dà luogo a una piramide i cui spigoli svaniscono in alto in una banda oscura.

Per un osservatore esterno che giudichi della loro convergenza, il vertice dovrebbe essere vicino e concreto; ma in realtà il vertice non c’è. Al di là della banda che resta indecifrabile gli spigoli divergono, e con un nuovo andamento entrano nel viluppo della struttura dello Stato. Qui si attuano le convergenze e gli intrecci più imprevedibili; qui l’Università trova i legami più misteriosi e indissolubili col sistema.

Del resto, a parte gli assistenti volontari e i professori incaricati, spermatozoi alla febbrile ricerca di un ovulo che dia loro una configurazione concreta, tutti gli altri docenti, ai diversi livelli della piramide, sono funzionari statali. Le pareti che li dividono per categorie gerarchiche sono permeabili in senso ascendente : per tutti, sia pure con un basso tasso di probabilità, c’è la possibilità di ascendere. Ma il regolatore di questa ascesa non è, come si vorrebbe credere, il valore scientifico poiché l’ascesa è il prodotto di una iniziazione complicata e crudele che ha come soluzione finale l’accettazione 32

del sistema o la connivenza forzata col sistema. La scalata passa attraverso una successione di passaggi perfettamente calibrati che filtrano l’indipendenza, il coraggio di opinione, la lealtà scientifica e umana. Tutti quelli che sono arrivati ai livelli più alti, anche chi per naturale qualità di durezza o per caso è riuscito a conservare dignità e decoro, tutti portano incisa nello strato più intimo della loro vicenda personale la vergogna delle capitolazioni, temporanee o definitive, cui hanno dovuto soggiacere. La regola del gioco è perfetta perchè il ciclo non arriva mai a una fine, come il gioco delle perle di vetro o come il poker: nessuno può considerarsi mai sulla vetta, per il semplice fatto che la vetta non c’è. E anche la motivazione del gioco è perfetta, perché è nel potere. Ad ogni tappa conseguita c’è un nuovo privilegio e un nuovo premio di potere, inalienabili e in loro stessi assoluti.

Per fare un esempio che con termini diversi vale per ciascun livello raggiunto : un professore ordinario non può essere dimesso dalla sua posizione neanche se per senescenza precoce non è più in grado di insegnare e neppure se per interessi egoistici privati trascura o si rifiuta di insegnare, adopera gli assistenti e gli studenti come forza-lavoro per le sue personali extrascolastiche iniziative, usa l’insegna del suo grado universitario per crescere di prestigio e di guadagni nel campo dell’attività professionale. Senescente o impegnato, profittatore o disinteressato che sia, egli ha in ogni caso l’assoluta prerogativa di perdisporre e manovrare i filtri che sbarrano la sua posizione alla penetrazione dai livelli inferiori. Tutti sono sollecitati dall’automatismo del sistema a riunirsi in questa circostanza di suprema difesa (e di massima corruzione) della struttura; tutti, anche contro le loro personali convinzioni, sono automaticamente trascinati nel gorgo delle astratte manipolazioni (e delle vergognose alleanze).

Attraverso questi processi automatici, che trascendono e allo stesso tempo coinvolgono la volontà delle persone, l’Università si configura come luogo di centri di potere che non hanno nulla a che fare con le esigenze dell’insegnamento e della cultura; come un sottoinsieme nell’insieme più generale di quei centri di potere che sono all’interno dello Stato o che dall’esterno lo governano.

11

Le Facoltà di architettura italiane sono nate da un

matrimonio di convenienza tra le scuole di ingegneria e le accademie di belle arti11 Per chi è ancora incredulo o affezionato al mito retorico dell’Università incontaminata e ineffabile si potrebbero citare molte altre situazioni e innumerevoli dati.

Ma nessun resoconto particolareggiato può essere più persuasivo del fatto incontestabile che i Rettori, col consenso dei Consigli di Facoltà, hanno ripetutamente chiamato negli ultimi anni la polizia a sgombrare le Università degli studenti in rivolta.

L’autonomia della comunità universitaria sanciva da secoli il riconoscimento del suo diritto a contestare liberamente il sistema. L’appello al sistema perché con la violenza ristabilisca un ordine autoritario, da un lato costituisce l’esplicita dimostrazione di come l’equilibrio comunitario sia stato prevaricato; dall’altro rende manifesti i legami della parte prevaricante con le forze esterne del potere costituito. Questo potere ha bisogno di quadri, ma vuole ottenerli da una Università acquiescente alle sue ragioni.

Del resto, le risposte alle sue ragioni non passano necessariamente attraverso l’Università. Al contrario, se fosse possibile, la creazione di nuove istituzioni già in partenza strumentalizzate accorderebbe maggiori garanzie di quanto non faccia una Università controllata ma irrequieta, risonante, almeno in alcune sue parti, al richiamo della contestazione. Non è nuovo e neppure inverosimile il disegno di un’organizzazione dell’istruzione superiore articolata in un settore didattico per la preparazione dei quadri operativi affidata ai corsi di una Università declassata (e decentrata) e in un settore di ricerca affidato ai monopoli industriali e quindi dotato di tutti gli strumenti tecnici e i mezzi economici necessari.

Gli osservatori forniti di maggior fantasia potrebbero domandarsi se non è questo il disegno che si proietta sullo sfondo del troppo breve cammino che lo Stato ha percorso in questi ultimi anni verso la soluzione dell’Università di massa. Da questo sospetto, del resto, è cominciata qualche anno fa la rivolta degli studenti che oggi angoscia tanto profondamene la nazione.

Le rivendicazioni iniziali sono state rivolte in principio agli aspetti quantitativi del problema. Inefficiente distribuzione territoriale dei centri universitari, inadeguatezza delle sedi, mancanza di posti aula e di lavoro, insufficienza delle attrezzature didattiche, inesistenza di alloggi per studenti, servizi culturali assistenziali sanitari sportivi, ecc. e soprattutto ritardi nell’emissione di borse e di fondi per il presalario, considerato mezzo fondamentale per l’attuazione concreta del diritto allo studio sancito dalla Costituzione: questi sono stati i principali argomenti del primo tempo del dibattito suscitato dagli studenti intorno al ’60.

È interessante notare come in questa fase le tesi degli studenti si trovassero a coincidere con le opinioni e i programmi dei partiti politici della sinistra ufficiale. Per entrambi, ragionevolmente, la soluzione dei problemi quantitativi spettava allo Stato; anzi si prospettava possibile solo dopo aver attuato una rigorosa concentrazione di tutti gli strumenti dell’istruzione nell’organizzazione statale, tagliando radicalmente ogni possibilità di iniziative esterne allo Stato.

Ancora più interessante è però constatare come la seconda fase, quella qualitativa che si è aperta negli ultimi mesi, sia andata oltre il semplicismo risolutivo di questa assunzione. I settori della sinistra politica continuano ad assicurare alle lotte universitarie una incondizionata adesione, ma molti gruppi di studenti, arrivati attraverso un affinamento progressivo delle loro tesi ad un maggior grado di articolazione, cominciano a chiedersi se le sinistre, anziché battersi per una statizzazione generalizzata, non avrebbero fatto meglio a promuovere alternative radicali alle strutture esistenti; se la loro azione, malgrado le innegabili riforme di dettaglio che ha portato, non abbia in definitiva contribuito a confermare e rafforzare il sistema.

La questione apre un problema scottante che investe, allo stesso tempo, la valutazione dei reali contenuti contestativi della sinistra ufficiale e il significato ultimo della rivolta dei giovani esplosa negli ultimi anni ovunque, non solo nelle

Università e non solo in Italia. È il duplice problema dell’invecchiamento delle strutture politiche tradizionali e del sorgere di nuovi modi di azione politica, che si pongono al di fuori delle lotte di potere e compensano il rifiuto degli strumenti convenzionali con una tensione di protesta assoluta e irriducibile. Nella recente storia della rivolta universitaria, le Facoltà di Architettura hanno svolto una parte di particolare rilievo. Cercheremo ora di delineare i caratteri di questa parte attraverso una serie di notazioni sintetiche.

Prima di tutto, brevemente, i fatti Nel dicembre del ’63, poco dopo l’inizio dell’anno accademico, gli studenti dei corsi di Composizione della Facoltà di Architettura di Milano entrarono in sciopero. Qualche settimana prima, considerando inattuali e astratti i temi assegnati per le esercitazioni, avevano chiesto ai docenti di aprire un libero dibattito sui contenuti dei programmi.

Di fronte al rifiuto, proclamarono lo sciopero e dopo una serie alterna di promesse e di minacce, insieme agli studenti di tutti gli altri corsi, nel febbraio del ’64, occuparono la Facoltà.

Era la prima volta che una Facoltà italiana veniva occupata dagli studenti; il primo episodio clamoroso della rivolta universitaria.

Qualche mese dopo, l’esempio di Milano venne ripreso dalle Facoltà di Torino e di Roma. Asserragliati nelle loro sedi, gli studenti cominciarono, da soli, a esaminare i loro problemi. Ben presto le occasioni iniziali si rivelarono trascurabili rispetto ai temi di fondo che cominciavano ad affiorare: precisazione dei compiti che l’architetto è chiamato a svolgere nella società, definizione del tipo di preparazione che la Facoltà deve dare all’architetto per metterlo in grado di svolgere i suoi compiti nei confronti della società, modificazione della struttura della Facoltà par renderla adatta a fornire il tipo di preparazione necessaria all’architetto, demolizione delle compartimentazioni tra i corsi, trasformazione degli Istituti in organismi destinati alla promozione della ricerca, rinnovamento del quadro dei docenti per renderlo corrispondente ai nuovi orientamenti della Facoltà, compartecipazione decisionale degli studenti alla gestione culturale della scuola.

33

Tra tutti questi temi, correlati da una interna logica che li rendeva inseparabili, i più avveduti Consigli di Facoltà presero in considerazione soltanto gli ultimi due, mentre i più sprovveduti li rifiutarono in blocco. Per calmare la volontà di partecipazione degli studenti vennero inventate le commissioni paritetiche e per tappare le falle derivate da un lungo periodo di isolamento e di incultura vennero immessi nei quadri accademici alcuni nuovi professori reclutati in altre Università o nella professione. Per qualche tempo tutti e due gli espedienti si rivelarono efficaci. Infatti nel corso del ’65 e parte del ’66, mentre in tutte le altre Facoltà la rivolta si allargava, nelle Facoltà di Architettura le tensioni si stemperavano in una inutile attesa di automatici rinnovamenti e in una logorante schermaglia di controversie burocratiche.

...Passato questo periodo, i problemi di fondo che erano stati provvisoriamente accantonati ritornarono al centro del dibattito.

Nel 1967 si riaccese la lotta, che ancora una volta prese lo spunto da una serie di contestazioni rivolte ai settori più difettosi e antiquati dell’insegnamento, e successivamente si trasformò in un’azione di rivendicazione globale contro il potere dei Consigli di Facoltà.

Le Facoltà di Milano, Torino, Napoli e Venezia vennero occupate dagli studenti.

Tutte, fuorché quella di Milano, furono sgombrate dalla polizia. A Venezia, dove l’occupazione era stata più lunga e irriducibile che altrove, l’intervento della polizia non fu sollecitato dal Rettore ma da un movimento neofascista che si faceva chiamare Ordine Nuovo e in realtà era votato alla conservazione dell’ordine vecchio; dovunque potesse ancora trovarlo e quindi, specialmente, nell’Università.

Le parti in contrasto e i loro attuali rapporti Si dovrebbe dare per scontato - e questo naturalmente vale per tutta l’Università e non solo per le Facoltà di Architettura che gli studenti non sono una classe sociale.

Anche se una parte delle rivendicazioni studentesche ha uno sfondo economico, la condizione degli studenti universitari è quella di un gruppo eterogeneo destinato a una specifica funzione sociale.

Il vero problema degli studenti non è 34

tanto quello di acquisire una sicurezza economica, ma piuttosto di chiarire gli obiettivi della loro funzione, le ragioni per cui dovrebbero assumerla, i modi in cui possono svolgerla. E il presupposto del chiarimento è che essi stessi possano compierlo, perchè solo così avranno la garanzia che gli obiettivi non saranno efferati, che le ragioni non saranno sopraffattone, che i modi non saranno agnostici. In altre parole, la garanzia che essi non verranno strumentalizzati all’esercizio della funzione sociale per cui si stanno preparando; che la loro vita avrà un significato umano.

La questione si pone dunque per gli studenti in termini di «affrancamento» e rientra nel fenomeno più ampio dell’espansione dei diritti civili. Su questa nuova frontiera tutta la gioventù è in movimento, dagli Stati Uniti all’Europa, alla Cina, per la conquista di una autonomia di espressione che da sempre le è stata negata nel nome della più antica e transclassista affermazione del principio di autorità: il dominio incontestato degli anziani nel governo della società. Da punti di partenza diversi, appropriati alle diverse condizioni ideologiche e politiche di ciascun paese, il moto è convergente verso un identico obiettivo: l’affermazione del diritto dei giovani a contestare i comportamenti di una società che fallisce rovinosamente sul piano umano, nel momento stesso in cui raggiunge l’apice dell’efficienza produttiva.

Nel corso della lotta che conducono contro i Consigli di Facoltà, gli studenti della Facoltà di Architettura, forse prima degli altri, hanno cercato forme organizzative e modi di comportamento, che proprio per la loro novità si sono rivelati concretamente eversivi. Le associazioni studentesche tradizionali, che si qualificano per tendenze politiche simmetriche a quelle rappresentate dai partiti, e che nel primo tempo della rivolta avevano avuto un’influenza fondamentale, tendono ad assumere una funzione prevalentemente organizzativa, del tutto marginale. L’Assemblea di tutti gli studenti è l’organo sovrano. Sono limitate allo stretto indispensabile le deleghe di rappresentanza: in molte Facoltà il presidente dell’Assemblea è sostituito tutti i giorni, come sono sostituiti tutti i giorni i delegati destinati ai contatti con i docenti o con l’ambiente esterno. Questo provoca ritardi e qualche confusione, ma allo stesso tempo allontana il rischio di

cristallizzazione del potere, genera partecipazione e consapevolezza e quindi libertà (e gli studenti sono persuasi che, al contrario di quanto è stato loro insegnato, la libertà conta più dell’efficienza) In una delle .Facoltà di Architettura, durante il periodo di occupazione, gli studenti si erano organizzati in liberi raggruppamenti, assai simili ai clubs giacobini, corrispondenti a diverse tendenze di opinione. Non era vergognoso né infamante, passare da un gruppo all’altro se si arrivava a cambiare opinione durante lo sviluppo del dibattito. In un’altra Facoltà di Architettura gli studenti avevano disselciato un cortile, dove i professori parcheggiavano le macchine, per trasformarlo in un giardino. Nel contesto di queste nuove forme di comportamento, queste e molte altre sbocciate dalle tensioni dell’occupazione, non mancano le incertezze, gli orrori del vuoto istituzionale, le nostalgie per gli apparati rassicuranti. Soprattutto nei quadri delle rappresentanze studentesche ufficiali, non mancano gli «zii Tom» preoccupati di chiudere al più presto l’operazione, per far quadrare i conti della Facoltà includendovi la loro pur precaria funzione.

Nel corso dei recenti Seminari di programmazione si è affacciato più volte il tentativo dei dirigenti, già riverberati dal potere accademico, di ricomporre i dissensi sulle fragili basi dei primi risultati già raggiunti: in contrasto con un’Assemblea qualche volta distratta sulle questioni di dettaglio, ma sempre presente e irriducibile sulle questioni di principio.

Consigli di Facoltà e Assemblee degli studenti sono dunque le sole parti che attualmente contano, con opposti comportamenti, nelle Facoltà di Architettura italiane. Come in tutte le altre Facoltà, la linea che le divide corre lungo il filo del principio di autorità. Si tratta di vedere quale sia, nella Facoltà di Architettura, il materiale di cui questa linea è culmine.

La terza notazione è dunque su

Gli argomenti del dibattito Le Facoltà di architettura italiane sono nate da un matrimonio di convenienza tra le scuole di ingegneri e le accademie di belle arti. Di tutte e due hanno ereditato i peggiori caratteri e mai hanno potuto liberarsene. Da questo peccato originale deriva l’assurdo apparato di materie contradditorie che uno studente deve seguire : un presuntuoso ed estenuante tentativo di coprire tutto lo scibile dalla scienza all’arte.

«Il risultato», diceva uno studente laureando nel tirare le somme del suo curriculum scolastico, «è che l’architetto diventa matematico, fisico, ingegnere edile, storico dell’arte... e in ogni caso rimane un dilettante.» Dalle grottesche insufficienze della formazione dell’architetto prese le mosse il dibattito nell’immediato dopoguerra. Le prime timide richieste degli studenti furono infatti rivolte al ridimensionamento delle materie scientifiche. È in quell’occasione, nelle facoltà appena più avanzate, dove un minimo di dialogo era concesso almeno con i docenti delle materie cosiddette artistiche, vennero commessi i primi errori. Con la buona intenzione di alleggerire i programmi, si ridusse il livello delle matematiche e delle scienze per strumentalizzarle all’apparato delle materie compositive, sclerotico e insensato come prima. Il problema non era di sfoltire i rami, ma di smantellare il tronco e ringiovanire le radici. Infatti ad un Convegno di docenti tenuto a Napoli nel 1959, gli studenti presentarono una mozione che già spostava in avanti il traguardo. «L’adeguamento dei piani di studio», si diceva, «implica un aumento della sensibilità nei confronti delle sollecitazioni della realtà esterna, cioè dei problemi e delle necessità del Paese».

Veniva a galla la questione del Paese e l’urgenza delle sue necessità, o in altre parole - non esplicitamente dichiarate in quel convegno, dove gli studenti erano ancora ospiti patemalisticamente accoltil’ipotesi di un nuovo impegno dell’attività architettonica nei confronti dello sviluppo della società.

Intorno a questo nucleo orbitò la discussione negli anni successivi, spinta dal crescente scontento degli studenti e anche da una serie di fatti oggettivi che cominciavano a emergere proprio dalla realtà esterna. Lo sviluppo economico dei primi anni Sessanta aveva rivelato in modo folgorante quanto l’architettura italiana fosse impreparata ad affrontare i fenomeni che si stavano scatenando. Le grandi trasformazioni dell’ambiente fisico provocate dalle migrazioni interne, dall’urbanesimo, dall’accresciuta mobilità, dall’incremento dei redditi, venivano abbandonate alla pirateria degli speculatori privati, alla sopraffazione dei monopoli, all’insicurezza dei politici. L’architettura non solo non forniva quadri capaci di introdurre correttezza tecnica nelle operazioni che si venivano compiendo, ma neppure idee, concezioni e proposte, che potessero contestarne l’incoltura. La scuola aveva continuato a sfornare una élite di professionisti generici destinata a risolvere il superfluo decorativo di una élite agiata : non aveva prodotto operatori per la pianificazione territoriale nè tecnici dell’urbanistica né progettisti urbani né autentici designers; tanto meno aveva prodotto cultura, attraverso un esercizio sistematico e continuo di ricerca.

Durante gli scioperi e le occupazioni del ’62 e del ’63, gli studenti cominciarono a ragionare su questa sciagurata situazione e sulla sorte che sarebbe stata loro riservata una volta usciti dalla scuola, senza arte nè parte in un mondo indecifrabile. Le conclusioni, poste nei termini ben concreti di una legittima difesa, misero a punto tre argomenti principali : Facoltà di Massa, rinnovamento della didattica, avviamento di una nuova attività di ricerca, che vennero proposti ai professori invitandoli ad uno sforzo comune di chiarimento e di riorganizzazione. Riesaminando oggi, dal punto più profondo della crisi, i documenti, perentori nella forma ma aperti nella sostanza, che contenevano quell’invito, sembrano oscuri i motivi per cui i Consigli di Facoltà si rifiutarono di accoglierlo, giocando di reticenza e di divagazione e perfino mettendo avanti le ragioni della loro offesa dignità professionale. Indubbiamente agiva l’antico vizio autoritario, l’ottusa astuzia padronale deH’Università italiana. Ma per la Facoltà di Architettura c’era anche altro.

Facoltà di Massa era omologa alla Architettura per il Grande Numero: la popolazione scolastica è cresciuta perchè la domanda sociale di architetti è oggettivamente in espansione e se questo accade è perchè il superfluo decorativo, che l’architettura italiana è stata, tende (tendenzialmente) a trasformarsi in una necessità strutturale dello sviluppo del Paese. Ma quanti tra i docenti abbarbicati allo scoglio sicuro della facoltà erano pronti ad assumere il rischio di questa nuova prospettiva? Quanti di loro formati nella provincia del buon gusto, del piccolo cabotaggio professionale, della declamazione velleitaria, potevano assumere l’impegno di una responsabilità sociale?

D’altra parte, il rinnovamento didattico era analogo alla formazione di una base scientifica per l’architettura del Grande Numero. Il controllo delle grandi trasformazioni dell’habitat umano e la produzione pressoché illimitata di oggetti che si collocano nell’ambiente fisico, implica l’adozione di strumenti di analisi e di intervento progettistico precisi, fondati su tecniche complesse e rigorose.

Per questo, a sostituire l’arredamento e la decorazione è nato, fuori dalla scuola, il design come attività complementare della produzione di ogni cosa; e per questo a sostituire l’architettura urbana, dopo un lungo periodo di trastulli comunitari ha cominciato, sempre fuori dalla scuola, a configurarsi una urbanistica come scienza umana. Ma quanti tra i professori, ormai connaturati al pastiche professionale-artistico della scuola, potevano mettere in gioco il loro sfondo culturale ponendolo a confronto con un apparato didattico realmente scientifico?

Avevano accettato di ridimensionare le matematiche e le scienze perchè questo contribuiva, in fondo, a legittimare la loro inconsistenza; mai avrebbero consentito ad una loro reintroduzione, al massimo livello necessario. Tantomeno avrebbero potuto consentire aH’avviamento di una autentica attività di ricerca, dal momento che in un Paese precario come è il nostro e in un campo incerto come è quello dell’architettura italiana, la ricerca è omologa alla contestazione radicale.

Cosa trova, infatti, chi ricerca nei modi in cui vengono configurandosi le strutture fisiche del nostro Paese? Trova che questi modi sono condizionati alle esigenze 35

particolaristiche di un sistema idiota e sopraffatorio; che gli interventi architettonici in cui questi modi consistono, anche quando si mimetizzano in raffinate sofisticazioni, si collocano all’interno del sistema e lo arricchiscono di idiozia e di sopraffazione. L’attività di recerca poteva essere accettata solo nella misura in cui non era autentica e cioè nella misura in cui dichiarandosi contestativa portava, di fatto, al consenso; oppure, per un altro verso, nella misura in cui mistificandosi poteva riassorbire in un sol colpo insieme alla propria tensione aversiva anche quella contenuta nelle implicazioni della facoltà di massa e nella messa a punto di una nuova didattica.

Facoltà di massa, didattica, ricerca L’Università di massa non è l’Università di élite ingrandita, né tantomeno semplificata e istupidita. Per avere una Università di massa non basta predisporre aule più grandi o più numerose, moltiplicare professori o assistenti, aumentare le materie o sfoltirle, intensificare le ore di lavoro o tagliarle; occorre una trasformazione di struttura che modifichi le relazioni tra le parti, riequilibri i rapporti tra partecipazione mansioni e responsabilità, assicuri la flessibilità degli scambi e dei confronti, rafforzi il rigore culturale.

L’obiettivo della Università di massa è di rispondere a una domanda sociale che à diversa da quella rivolta all’Università di élite. Non si tratta di addestrare quadri per una classe al potere, ma di preparare operatori destinati all’intero contesto sociale; quindi specializzati per attività specifiche, ma consapevoli della finalità e delle conseguenze implicite nella loro azione.

L’attività didattica costituisce lo sfondo dei dipartimenti mentre questi costituiscono le articolazioni dell’attività di ricerca. Le due attività sono distinte, anche se correlate da un rapporto di necessità reciproca. Non si può immaginare infatti che la didattica possa in sè stessa comprendere la ricerca, come finora è avvenuto nella Facoltà di Architettura, poiché, per quanto formativo possa essere un insegnamento, esso non può possedere quegli intenti di scoperta e di penetrazione che sono propri della ricerca. Nè si può immaginare che la ricerca possa essere comprensiva in sè stessa della didattica, come è stato sup36

posto nella Facoltà presa ad esempio nella precedente notazione, dal momento che è impossibile ricercare se non si possiedono gli strumenti tecnici e metodologici che consentano di indagare sistematicamente entro una disciplina, coi metodi scientifici che le sono propri.

Per svolgere una ricerca operativa occorre la matematica, per svolgere una ricerca sulle trasformazioni semantiche di un tessuto urbano occorre la storia dell’architettura, per svolgere una ricerca tecnologica occorrono nozioni sulla natura e sui comportamenti dei materiali, per svolgere una ricerca progettistica occorre possedere mezzi di formalizzazione che rendano possibili la rappresentazione e la comunicazione delle idee, ecc., ecc.

Una intelaiatura didattica continuamente aggiornata dovrebbe dunque fornire gli strumenti necessari alla formazione di una base culturale per il lavoro di ricerca : più ampia possibile, di prima mano e al massimo livello. Le maglie di questa intelaiatura dovrebbe essere incluse nella Facoltà per tutte le materie appropriate all’architettura, ed estendersi verso l’esterno, nell’area didattica di altre Facoltà, per tutte le materie appropriate ad altre attività e tuttavia direttamente o indirettamente connesse con l’insegnamento architettonico. Non c’è nulla di più stolto infatti che insegnare una submatematica per gli architetti quando la matematica è una e già viene insegnata al massimo livello nelle Facoltà scientifiche, idem per la scienza delle costruzioni che già viene affrontata nel modo più corretto nelle Facoltà di Ingegneria, idem per la sociologia o l’economia che recentemente sono state trasportate nella Facoltà di Architettura come turafalle di flagranti insolvenze urbanistiche con un effetto altrettanto futile di quello che si avrebbe insegnando una sotto-urbanistica alle Facoltà di Sociologia o Economia.

Spetterebbe al dipartimento di gestire le materie interne e di stabilire i legami con quelle esterne, in relazione alle esigenze che continuamente vengono sollecitate dall’attività di ricerca, lasciando aperta la possibilità di cambiare, sottrarre e aggiungere, rinnovare. Soprattutto, lasciando libero lo studente di scegliere e decidere secondo i suoi bisogni e senza altro obbligo se non quello che gli deriva dalla consapevolezza delle sue lacune, identificate al momento della definizione

del suo curriculum scolastico e nel corso del suo sviluppo.

Così il dipartimento, oltre i compiti di coordinamento che sono stati indicati, potrebbe assolvere la funzione di concreto stimolo per la trasformazione dell’Università da quella inerte aggregazione di facoltà autosufficienti e incompatibili che è oggi, in una Scuola degli studi aperta, intercomunicante e flessibile.

Una scuola come luogo di molteplici opportunità di studio in cui lo studente segue liberamente la sua strada, affrancato da tutti i preconcetti classificatori che spaccano l’unità della cultura, libero dai vincoli delle direzioni obbligate, stimolato all’esercizio della critica già nella scelta autonoma e responsabile del suo percorso scolastico. Quanto all’attività di ricerca sembra necessario, nelle attuali circostanze, di precisare tre ovvi presupposti.

Il primo è che l’attività di ricerca di una facoltà di massa è l’insieme di numerose ricerche di gruppo. Si vuol dire che la dimensione del gruppo deve essere sempre commisurata alle esigenze intrinseche della ricerca e che, indipendentemente dall’argomento esplorato, la principale esigenza è quella del continuo e diretto scambio di opinioni ed esperienze tra i partecipanti al gruppo. È falsa e mistificatrice l’affermazione secondo la quale in una Facoltà di massa la ricerca deve essere condotta da gruppi smisurati per poter dare al maggior numero possibile di studenti la possibilità di parteciparvi.

Per di più è sospetta quando il gruppo è diretto da un unico professore, ed eventualmente è suddiviso in sottogruppi affidati a assistenti o aiuti; col risultato di riprodurre le identiche condizioni dei corsi tradizionali e di riproporre con un diverso nome la vecchia merce e la stessa sopraffazione.

Il secondo presupposto è che l’insieme delle ricerche di una Facoltà di massa deve essere orientato sul filo di una precisa tendenza. Molti sono i temi che si possono indagare nell’ambito di una disciplina, ma alcuni sono più appropriati di altri all’attività universitaria.

, l.'T - ■

^

iWSI»

Università di massa, didattica e ricerca sono dunque passaggi fondamentali sulla via della chiarificazione che la Facoltà di Architettura ha cominciato a percorrere; prima con chiarezza e poi con qualche oscillante incertezza. L’incertezza è dovuta alla ambiguità del dialogo tra parte e controparte che gli studenti hanno ripreso, con senso realistico ma senza la garanzia di riuscire a depurarlo di tutte le riserve oscure che sono state causa di permanente incomunicabilità. L’incomunicabilità è infatti uno stato tipico della Facoltà di Architettura, così rappresentativo delle sue difficoltà da rendere opportuna una breve settima notazione su il linguaggio delle parti.

Le ricerche condotte da una Facoltà non possono costituire un insieme casuale ma essere tutte orientate all’esplorazione di alcuni punti nevralgici, della sfera astratta come dell’ambito pratico, che occorre mettere in crisi, prima con interpretazioni eterodosse e poi con proposte alternative; le quali dovranno essere tanto rigorose ed esplicite da coinvolgere le diverse responsabilità culturali e politiche che a quei punti si applicano. È questo l’unico modo corretto e fattuale per trasformare la ricerca in partecipazione: gli altri, anche se simulano buon senso pratico, empirica considerazione, attaccamento al concreto, in realtà nascondono connivenze interessate; in un fumo di confusione inclinano puntelli per la conservazione del sistema.Il Il terzo presupposto si riferisce al modo di conduzione della ricerca ed in particolare al tipo di rapporto che si stabilisce nel gruppo in cui studenti e docenti si trovano a lavorare insieme. Questo rapporto deve essere rigorosamente egualitario, nel senso che ogni partecipante deve avere gli stessi diritti e doveri nei confronti del comune problema di conoscenza, perché possa sprigionarsi intera la forza del lavoro collettivo, sia che derivi da freschezza di idee o da esperienza. Così l’attività di ricerca oltre a costituire una intelaiatura propulsiva dello sviluppo culturale, si configura come concreta occasione di comportamenti non autoritari, come esempio di un esercizio democratico che si riflette su tutta la struttura della scuola.

Le contraddizioni dell’architettura italiana Mentre preme attraverso gli studenti l’esigenza di un rinnovamento dell’architettura per una più intensa partecipazione alle trasformazioni strutturali della società, si profila, al di là e a cavallo della barricata, una nuova torsione diversiva verso le ragioni di un’architettura come arte incontaminata e di una scuola di architettura come accademia. Balena ancora una volta lo specchio di una agiata prostituzione al riparo dalle volgarità del reale.

Le ragioni dell’architettura sono assai più complesse e sollecitanti dell’ibernazione accademica che le si propone. I problemi dell’ambiente fisico sono diventati fondamentali per il progresso nel mondo. In ogni azione di pianificazione economica e sociale, per ogni prospettiva politica, non si può più prescindere dalle strutture e dalle forme che l’ambiente fisico assume nel rendere attuali e concrete le proposizioni. Per questo dalle matrici dell’architettura è nata l’urbanistica come scienza delle trasformazioni strutturali e formali del territorio e, in direzione simmetrica, è nato il disegno industriale come scienza della produzione massiva delle cose che collocandosi nel territorio partecipano della sua trasformazione. Il campo di azione dell’architettura e il flusso delle sue riverberazioni si sono enormemente allargati ; per cui occorrono ormai competenze specifiche appropriate alla diversa qualità degli obiettivi perseguiti e degli strumenti impiegati. Soprattutto occorrono nuovi sistemi di valori e nuove strutture culturali che possano scardinare i presupposti ideologici obsoleti sui quali ancora l’architettura e la società si reggono.

La grande rivoluzione che si profila nel mondo, con profonde escursioni sull’intero campo delle relazioni umane, con rivolgimenti tecnologici destinati a sconvolgere i comportamenti della società nei confronti delle cose, con una nuova folla di protagonisti che disintegra i sistemi avvolgendoli di critica, trova l’architettura (italiana) ancora una volta impreparata. Come nell’epoca protoindustriale, l’orrore di un ruolo responsabile e impegnato si traduce in una sequenza di tempeste nel bicchiere di una rigida configurazione. La rivolta degli studenti della Facoltà di Architettura è scoppiata dalla constatazione di questo incerto destino. Il suo anticipo è dovuto al fatto che il destino era più incerto che altrove; le difficoltà in cui si è incagliata al fatto che era più mistificato.

Oggi è difficile prevederne gli sviluppi, ancora aperti e in continuo movimento.

Si può solo dire che è cominciato il giudizio e che, forse, la piramide può essere rovesciata.

jkc C+— (Estratti del libro di stesso titolo comparso alle edizioni De Donato, Bari, 1968.)

37