Giovanni Klaus Koenig, Firenze
Posizione dell’architetto in Italia Uno dei principali motivi che pongono gli studenti di architettura italiani alla testa delle agitazioni studentesche è la sensazione, per molti ancora inconscia, del loro assai incerto futuro; non essendo per ora affatto chiaro quale sia - e quale sarà - il patto che lega il professionista architetto alla società.
Tutte le professioni si basano su patti non scritti, ma accettati e regolamentati, fra il singolo professionista e la società; la quale concede a una classe di individui l’esclusività dell’esercizio di una professione, con diritti e doveri ben precisi. Fra i doveri (del medico, del farmacista, dell’avvocato, del notaio, dell’ingegnere, ecc.) vi è il segreto professionale, l’impegno a non danneggiarsi a vicenda, la necessità di mantenere un decoroso livello di condotta sociale e di un continuo aggiornamento tecnico; e infine, il dovere di essere sempre, giorno e notte, a servizio della società, cioè di non porre limiti superiori alla propria forza-lavoro.
In cambio, il professionista ottiene, come si è detto, la privativa. Il che non è cosa da poco, perchè ciò significa che saranno sempre i medici a giudicare i medici, gli avvocati a giudicare gli avvocati, e cosi per ogni classe professionale. Questa privativa di giudizio comincia nelle università, dove sono chiamati ad insegnare i più illustri professionisti.
Su questo tessuto di rapporti sociali, che Sandro Giannini ha profondamente analizzato nel suo saggio «De profundis» (su «Cosabella», n° 327) si basa l’equilibro di una professione. Se una determinata classe professionale viene meno al suo compito, con pretese economiche eccessive o con un declassamento delle proprie capacità tecniche, la società reagisce tagliendole la privativa. Si permette di esercitare la professione anthe ad altre categorie, con funzioni economicamente calmieratrici : in Italia sono tipiche le eterne querelles fra ingegneri e geometri, fra medici e dentisti non laureati, fra dottori in commercio e ragionieri.
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Le arti ed i mestieri - dal pittore al poeta, dal calzolaio al sarto - sono sfuggiti a queste regolamentazioni professionali.
Assai giustamente, sia perchè non è in pericolo la vita o la sicurezza umana (principale preoccupazione dei legislatori), sia a causa del quid artistico, che ciascuno valuta a suo modo, e che non è legiferabile. Il miglior sarto sarà colui che farà il miglior vestito a buon prezzo, e non sarà certo la legge a giudicarlo.
Le arti si differenziano dalle professioni per l’intrusione di una nuova categoria: quella dei critici. Il critico, non necessariamente sarto se si occupa di moda, o poeta se si occupa di poesia, è colui che, possedendo la fiducia di larga parte della società, è delegato a dare giudizi di merito, a indicare i «buoni» e i «cattivi» nel campo specifico dove si riconosce la sua competenza, e, talvolta, la sua preveggenza. Nelle professioni questa intrusione del critico è vista come il fumo agli occhi : assai difficilmente un medico permettereble di essere giudicato, sul piano professionale, da un non-medico.
Ora, la professione di architetto, nata in Italia attorno agli anni trenta riunendo assieme gli insegnamenti di ingegneria civile edile con quelli dell’Accademia di Belle Arti, fuse disinvoltamente l’attività professionale, tipica dell’ingegnere, con quella dell’artista architetto. Il che, sul piano teorico, era assai giusto ; ed ha dato alla figura dell’architetto italiano un prestigio professionale grandissimo. Ma, ovviamente, la sua duplice veste di professionista e di arti sta, se da un lato gli faceva ottenere una duplicità di diritti, dall’altro lato gli imponeva una duplicità di doveri. Fin che tutto andava bene, l’essere architetto era una condizione professionale privilegiata, ma poi, di fronte ai ripetuti fallimenti architettonici e urbanistici, gli attacchi son venuti da due fronti, e l’architetto è divenuto il capro espiatorio di ogni guaio che attanaglia le nostre città.
L’architetto si è accorto abbastanza in ritardo di questa reazione negativa della società nei suoi riguardi, dovuta in gran parte alla trasformazione dell’antico capitalismo padronale in neo-capitalismo, che incide notevolmente sui rapporti fra l’architetto e la società. Il professionista che prima riceveva un incarico globale dalla società (per cui si metteva la fatidica targa dorata sopra l’uscio dello studio, e prima o dopo i clienti arrivavano), si trova adesso alla mercè dei
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e studenti architetti rivolgono quindi oggi, sia alla società neocapitalista che a quella socialista, una continua
richiesta di potere1 gruppi di potere. Il suo destino dipende dai partiti politici, dagli speculatori edilizi, dagli amministratori pubblici, dai dirigenti delle imprese edilizie. Essi non solo limitano di fatto la libertà dell’architetto, ma innescano un processo di degradazione sociale che riduce l’architetto alla condizione del salariato, cioè del bracciante del sud Italia, che si reca ogni mattina al mercato in attesa di un lavoro giornaliero, naturalmente pagato la metà del giusto.
Gli studenti di architettura hanno avvertito benissimo che la società neocapitalista tollera la figura dell’architetto, nel senso che essa continua a sfruttare la sua grande forza-lavoro; ma lentamente sta togliendogli il rango a cui l’aveva elevato, per ridurlo ad un ruolo subordinato. Non a caso, permangono invece alcune vecchie clausole del contratto: il professionista italiano continua a pagare sul proprio lavoro delle tasse che hanno un’aliquota dieci volte superiore a quelli di altre categorie di cittadini ; ed anche questa insopportabile pressione fiscale è fonte di esasperazione per i giovani architetti.
Gli studenti sono coscienti della trappola nella quale essi andranno a cacciarsi, una volta laureati ; e quindi si rivoltano contro l’unica loro controparte presente: l’università italiana. Molti pensano al comuniSmo come unica via di scampo, ma coloro che sanno la storia (assai pochi, purtroppo), sanno benissimo che la società socialista non ci pensa affatto a dare agli architetti la libertà che essi chiedono.
Lenin non sterminò affatto la burocrazia russa: ne spuntò i papaveri più alti, e basta; perchè i piccoli giurassero fedeltà al nuovo regime. Ma Lenin e Trotzky agirono senza pietà contro la classe professionale (il Dottor Zivago insegni), in quanto depositaria di quelle libertà individuali che bisognava abbattere per istaurare una visione del mondo totalmente comunista. Se vi è una società nella quale l’architetto è totalmente integrato, privo di capacità decisionali importanti, questa è la società comunista. Anche i presidi delle facoltà di Mosca e di Varsavia, di Praga e di Belgrado, hanno il loro daffare per tenere calmi i bollenti spiriti dei giovani studenti architetti, ai quali non piace affatto di dovere sottostare, in ogni decisione, alla classe politica e amministratice.
Sembrava un segno, dopo gli anni delle reazione stalinista, aver acquisito la libertà formale; ma in dieci anni ci si è accorti che non è la sola cosa che conti ottenere :
le decisioni più importanti sono quelle sul piano urbanistico, e qui è ancora il Partito che è il supremo giudice della volontà popolare.
Architetti e studenti architetti rivolgono quindi oggi, sia alla società neocapitalista che a quella socialista, una continua richiesta di potere. E tale richiesta appare largamente giustificata dal cattivo uso che la società sta facendo quasi ovunque del suolo urbano. Ma è assurdo legittimare tali richieste con atti di violenza, o assai peggio - con il cercare di ottenere la laurea con poca o nessuna fatica; non è sufficiente criticare il cattivo uso di un potere per ottenerlo: bisogna anche dimostrare di saperselo meritare. E la classe degli architetti, se vuole ottenere dalle società un aumento (e non una diminuzione) di potere, bisogna che produca qualche progetto concreto, che rifletta un nuovo e migliore assetto della società.
Purtroppo i fallimenti ed i cedimenti, specie sul piano urbanistico, si sono accavallati senza soste in questo ventennio, in Italia; ed i rari tentativi di uscirne hanno urtato contro insormontabili difficoltà di realizzazione, che si sono riverberate negativamente sulla figura dell’architetto. Anche le agitazioni degli studenti, prima ancora di produrre qualche progetto positivo, si sono rivolte a cercar di ottenere assurde facilitazioni nel corso degli studi, che di fatto si traducono in un declassamento ulteriore della figura dell’architetto nell’opinione pubblica.
Se architetti e studenti architetti non si decidono a dare qualcosa prima di chiedere, rischieranno di trovarsi fuori dall’uscio, eliminati da qualsiasi tipo di società. Ma dare senza chiedere significa rischiare, ed il guaio più grosso è che i giovani che si proclamano rivoluzionari hanno inconsciamente assunto i caratteri antropologici della civiltà dei consumi che dicono di combattere. Essi non muovono un dito senza fare un preciso conto economico della loro lotta, aborrono il rischio e le decisioni che non sono prese all’unanimità. Nessuno di loro si muove se non si sente coperto da un gruppo di potere, e nelle assemblee studentesche il gusto per le «manovre di corridoio», per i cavilli giuridici, per l’ostruzionismo organizzato, supera di gran lunga l’interesse per le proposte di riforma.
In conclusione, vediamo assai nero nei futuri rapporti fra architetto e società : a sempre maggiori richieste corrisponde una sempre minore volontà, da parte della società, di concedere un potere realmente decisionale agli architetti sul futuro dell’uomo. Purtroppo, non vediamo nemmeno come il movimento studentesco, che in altre facoltà sta contribuendo in modo decisamente positivo al rinnovamento dell’università italiana, possa dare una indicazione plausibile sulla nuova figura dell’architetto. Come ha scritto Giancarlo De Carlo, temo anch’io «che la grande rivoluzione che si profila nel mondo trovi l’architettura italiana ancora una volta impreparata».
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